Cittadinanza attiva laddove lo Stato non sembra voler arrivare

Sidi Bouzid – tra abbandono e voglia di trasformazione. Un colloquio con Jacer Amami – Rappresentante dell’UDC di Sidi Bouzid

di Denisa Savulescu

 

Per un occidentale che visita per la prima volta il Maghreb, la prima impressione che si fa della città non è certo di protezione e sicurezza. Sabbia e polvere la fanno da padrone, officine auto riparano macchine la cui produzione è terminata più di 15 anni fa, case in costruzione che forse nessuno mai porterà a termine, rifiuti ai lati delle strade che sembrano voler ornamentare piante di cactus impolverati, caffetterie piene di uomini intenti a bere il tradizionale tè, ragazzi a vendere frutta e verdura in un improvvisato mercato ortofrutticolo. Questa è Sidi Bouzid, quarantamila anime nel centro della Tunisia. La prima cosa che ci viene suggerita è di non uscire per le vie cittadine dopo il tramonto, di non dar troppo peso agli sguardi indiscreti ed insistenti degli autoctoni ma anzi provare a passare il più inosservati possibile.

È proprio qua che, 3 anni fa, ha avuto inizio il cambiamento. Uno di quei ragazzi, un giovane laureato che vendeva al “mercato”, dopo l’ennesima sfacciataggine e non curanza da parte delle istituzioni pubbliche si da fuoco davanti al governatorato. E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Da queste parti, lo si viene a sapere scambiando due parole con chi la zona la conosce e cerca di creare una realtà più vivibile, un attacco ad una persona del luogo è paragonabile ad un attacco verso un parente stretto. Fin dai tempi del bey, le antiche tribù del luogo erano motivo di preoccupazione per le autorità ottomane data la loro natura combattiva ed il loro forte senso di appartenenza e di fratellanza. Mohammed Bouazizi era un loro fratello, chi lo ha portato alla disperazione ponendolo nella situazione di fare quel gesto deve prendersi le proprie responsabilità. Oggi come allora, questa è la loro terra, la loro gente nessuno la conosce meglio di loro nè sa quali siano le migliori decisioni da prendere.

“Si sopravvive. Con 400 dinari al mese, una moglie e due figli, una volta arrivati a 4-5 giorni dal versamento della disoccupazione mi accorgo di avere le tasche vuote.” – dichiara il mio intervistato. Sono molti i giovani laureati come Jacer che sulla carta d’identità, nello spazio riservato alla qualifica lavorativa, si trovano scritto Rien. Trovare dei lavori a chiamata è già un ottima occasione. Eppure questi ragazzi non demordono, si incontrano costantemente per studiare delle possibili soluzioni, seguono corsi d’aggiornamento, collaborano con altre associazioni civili in Europa e nel resto del paese. In altre parole, partecipando attivamente provano a migliorare la situazione socio-economica della propria cittadina.

Ma non si può negare che la situazione è veramente drammatica. E’ come se lo Stato fosse spaventato da queste zone del paese, dove la gente si dimostra combattiva e desiderosa di reali cambiamenti, e per punire chi si è ribellato al sistema, ha bloccato qualsiasi genere di investimenti nella regione. Anche nel settore pubblico gli impiegati scelti in queste regioni sono in forte minoranza rispetto a quelli di altre regioni. Le infrastrutture sono in condizioni pessime, laddove ci sono.

C’è una fabbrica nelle vicinanze. Se ci andassi con una persona del luogo e gli chiedessi di indicarmi chi conosce tra i vari lavoratori, e quali competenze hanno loro in più rispetto a questi giovani, la risposta sarebbe scontata: tutti loro hanno votato per l’attuale partito di maggioranza. Dunque cosa è effettivamente cambiato? Il costo della vita è aumentato, la corruzione ed il nepotismo continuano a dettare legge nel mondo del lavoro, i giovani laureati riempiono le fila dei disoccupati e gli investimenti promessi sono rimasti solo promesse.

Il 07/02/2014 è entrata in vigore la nuova Costituzione tunisina. Scambiando due parole con questi ragazzi c’è chi la trova un svolta e chi continua ad essere convinto che la prima Costituzione della Repubblica Tunisina del 1959 rimanga la migliore. In effetti in quella odierna non si parla in maniera chiara ed esplicita di lavoro e del significato che assume nella vita del cittadino. Ancor meno si parla di diritti del lavoratore, subordinato o autonomo che sia.

Questi ragazzi sono coscienti che la rivoluzione non è finita, è passata al livello successivo. Sono finite le lotte di piazza, i massacri, ora arriva la parte più ardua: educare alla democrazia. Il tasso di alfabetizzazione della zona è molto alto, ogni famiglia investe interamente le proprie risorse economiche nell’educazione dei figli così da poter offrire loro un futuro economicamente più vantaggioso. Ma la meritocrazia non servirebbe comunque a molto in questa zona in cui manca qualsiasi forma di attività economica che presuppone il possesso di competenze di alto livello. Sarebbe facile andarsene da qui, cercare lavoro altrove, magari lungo la costa o all’estero ma qua la gente ha un legame viscerale con questa terra, la conoscono meglio di chiunque altro e non vogliono abbandonarla ne tanto meno vogliono ricevere ordini su come occuparsene da parte dei tecnici del potere centrale. Individui che probabilmente non hanno mai messo piede nel governatorato. Chiedono più autonomia, potere decisionale e degli investimenti che diano il primo impulso ad una possibile rinascita economica della zona, di tutto il resto si occuperebbero loro. Hanno avuto il coraggio e la forza di opporsi ad un regime di oppressione che durava da più di 20 anni, ora hanno il desiderio e la pazienza di plasmare una nuova Tunisia con le loro stesse mani.

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